“Il benaltrismo è un espediente retorico che consiste nell’eludere un tema o un problema posto, adducendo semplicemente l’esistenza di problematiche piú impellenti o piú generali, spesso senza chiarirle specificamente”.
Questo recita Wikipedia a proposito di quella che, nella combinazione espatrio + pandemia, è diventata una piaga. Nelle conversazioni, nelle chat, per non parlare dei social e dei commenti a post e articoli.
Il benaltrismo (in inglese whataboutism) è quell’odioso modo di porsi e di rispondere che fa sí che, alla prima lamentela, commento, espressione di preoccupazione rispetto al luogo in cui si vive, qualcuno salti fuori con un “Vabbè, ma dai, tu vivi a X, ma pensa a chi sta a Y”! O ancora “Vabbè ma dai, voi che state a Y avete bar e ristoranti aperti, qui invece no!” quando ad esempio, parliamo di pandemia e di quarantene intorno al mondo.
Il benaltrismo si applica a tutto e a tutti: all’espatrio (c’è sempre un posto in cui si sta peggio!), alla situazione economica (c’è sempre qualcuno che muore di fame!), alla cura dei figli (c’è sempre qualcuno/a che ha tirato su sette figli senza aiuti e lavorando a tempo pieno, e la casa era sempre in ordine!). A qualsiasi cosa. Il nervoso che mi sale è lo stesso di quando da piccola non volevo mangiare la banana perchè aveva una macchiolina oppure il minestrone. Il rimprovero degli adulti era ovviamente l’arcinoto sui bambini in Africa. Come se pensare a chi sta peggio potesse renderti più sereno.
La combinazione espatrio più pandemia ha ovviamente generato mostri: ognuno di noi si è visto applicare diverse regolamentazioni, restrizioni, periodo di lockdown. Molte persone sono rimaste chiuse dentro i loro paesi, o chiuse fuori (la nostra Mimma docet).
Se già prima sembrava che fra espatriati si facesse a gara a chi stava peggio (o meglio), qui siamo proprio partiti per un viaggio galattico sull’astronave benaltrista.
Beati voi che state lí a J! Dove funziona tutto!
Stiamo diventando una dittatura qui a Z! (NdR ovviamente benaltrista: te la faccio vedere io la dittatura, se ti va. Scrivimi.)
Certo che ve la siete cercata! Alla fine avete scelto voi di vivere a R!
E via così, in una gara infinita a chi sta peggio, che potrei accettare da un bambino yemenita o da una ragazzina afghana, se permettete il paragone irriverente.
Tutti ci lamentiamo, e a tutti fa bene lamentarsi moderatamente. La mia non è una critica a quello che è semplicemente uno sfogo. Ma bisogna camminare nelle scarpe di qualcuno per poter capire il suo vissuto, i suoi perché. Per ognuno di noi ci sono gradi di sopportazione diversi, caratteri e temperamenti diversi, flessibilità, capacità, esperienze diverse. Tutto qui.
Non fraintendetemi, non voglio mettermi in cattedra. Anche io, come tutti, ho peccato di benaltrimo, soprattutto nei momenti di insoddisfazione, in quei periodi di down che capitano anche quando tutto va bene, vivi in un posto che ami, fai un bel lavoro, ma semplicemente sei un po’ stanco e immancabilmente vorresti essere da qualche altra parte.
Quante volte ho alzato gli occhi al cielo leggendo di qualche mamma che chiedeva consigli, preoccupatissima, perchè doveva volare da sola da Bruxelles a Roma con un bambino di cinque anni. Amica mia, fatti la tratta Taipei – Dubai – Nizza con una di otto mesi, pensavo. Quante volte mi sono saliti i fumi sentendo gente disperata perchè si era dovuta trasferire a Parigi, o altra capitale bellissima europea ad un’ora di volo (low cost!) da casa. Tutto questo mentre io mi aggiravo in qualche mercato cinese, in mezzo a teste di maiale appese ad uncini ed esposte.
Poi ho capito. Poi ho capito che ognuno ha le proprie difficoltà, la propria misura che può colmarsi prima o dopo, e nessuno riceve una medaglia per la situazione più difficile. Perchè anche Parigi può essere un incubo, anche se io l’ho sognata per anni. E perchè, nonostante io mi sia trovata in paesi di non sempre facile lettura, sicuramente qualcuno là fuori pensa di essersela vista più brutta di me.
Ingenuamente ero fra quelle persone che credevano che questa brutta avventura della pandemia ci avrebbe reso più sensibili, più attenti, anche più minimalisti, in senso più ampio. Invece a volte credo che abbia solo accentuato questa tendenza a competere su chi sta peggio, che è qualcosa che mi urta forse di più della gara a chi invece sta meglio.
Insomma, io chiudo le orecchie e vado avanti, cercando sempre di capire, di empatizzare con chi mi parla, senza per forza giustificare ma appunto, fare un tentativo di comprensione. Anche se ultimamente è un po’ più dura.
Veronica, Francia
Interessante spunto di riflessione.
Anche io, come te, cerco di capire l’altro, di empatizzare: non tanto perché “bisogna fare così”, ma proprio perché mi viene spontaneo comportarmi così. Ultimamente questo esercizio continuo di cercare di mettersi nei panni degli altri, mi sta snervando.
Sugli esiti migliorativi di questa pandemia, da tempo mi sono scontrata con la realtà: essendo una situazione limite, ha accentuato tutte le asperità e le difficoltà che già c’erano, nelle situazioni, nelle dinamiche tra le persone e nei caratteri.
Alla fine c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi (vero!) però, se me lo si permette, io sto male a modo mio e per me è (magari) male male.
Facciamoci coraggio!
Esattamente, come dicevo ognuno conosce le sue scarpe se cosi si puo dire…
Ahimè, vero! C’è sempre chi sta peggio di te, fosse anche magari un semplice raffreddore. Altrettanto vero che ognuno vive le cose in modo diverso dagli altri. Empatizzare ok, ma tagliare corto e andare avanti ritengo sia la soluzione migliore.